Un anno fa, prima di partire, mi capitava di pensare già a come sarebbe stato il mio rientro in Italia, ma non potevo immaginare che mi sarei sentita così smarrita.
Da quando sono tornata in Italia, non mi sento pienamente lucida, non capisco tante cose… ad esempio: Perché ci sono così tante macchine? Perché non c’è musica per strada? Perché quando
diluvia nessuno pensa a riutilizzare l’acqua piovana? E perché non si lessano o friggono le banane? Sono buone fatte così…
Mi sembra di essere tornata alla “fase dei perché”, proprio come una bambina, piccola, con gli occhi spalancati, curiosi e spaventati. In un certo senso, tutta questa esperienza, da settembre 2023 ad oggi, è stata un ritorno alla fanciullezza, e Pascoli ne sarebbe contento.
Mi hanno salvato le cose semplici: il telefono senza filo, il nascodino, l’agitazione dell’attesa dei genitori all’uscita di scuola e la gioia del vederli da lontano avvicinarsi in classe, il succo di frutta per merenda, la rincorsa alle farfalle, il segno della croce fatto male, il “maestra sei la migliore maestra del mondo”. E che responsabilità essere chiamata “La miglior maestra del mondo”. Più volte mi sono chiesta perché quei bambini mi volessero così tanto bene e mi stimassero. Non credevo di meritarlo (e in parte non ci credo ancora).
Poi, un giorno, un episodio che ho vissuto a scuola mi ha fatto riflettere e mi ha aiutato a sciogliere qualche dubbio.
Ero a scuola con una collega e lei mi aveva chiesto di preparare una danza per la verifica di sport. Non ero troppo motivata, un po’ perché mi divertiva di più organizzare dei giochi di coppia, di gruppo o dei percorsi ad ostacoli e un po’ perché tecnicamente, in confronto a loro, io sono una frana a ballare. Al che, mi sono ricordata di un ballo abbastanza semplice che avevo imparato
anni fa su Just Dance, almeno, mi sono detta, il sound è particolare e forse loro non l’hanno mai sentito. In pausa pranzo l’ho ripassato e un’ora dopo ero lì che lo proponevo alla mia terza elementare, senza troppe aspettative. Invece, ho trovato una classe incredibilmente entusiasta: l’hanno adorato, mi hanno chiesto di ripeterlo una decina di volte, la collega di un’altra classe mi ha chiesto di trattenermi per proporlo anche nella sua classe. Suonata la campanella, vedevo che i bambini erano ancora lì all’uscita a ripetere qualche passo. Due giorni dopo, le due insegnanti delle due classi mi hanno chiesto se quella sarebbe potuta diventare l’esibizione ufficiale per una festa d’istituto. E così è stato.
In questi mesi, come nel caso di questo semplice episodio che ho preso come esempio, noi cooperanti abbiamo portato un sound nuovo. O meglio, un “vento nuovo”: leggero, che non ha
scatenato cicloni o uragani, ma ha provato a rinfrescare qualche vita. Un vento affettuoso, come poche delle mamme malgasce sanno essere.
Ho abbracciato tutti i bambini che ho incontrato (forse troppo). Li ho presi in braccio (anche quando non era necessario). Ci siamo riscaldati a vicenda e ci siamo trasmessi, cuore a cuore, un amore che ci legherà per sempre.
Piccolo bambino nato a 7000 km da me, io non conoscevo la tua storia e tu non conoscevi la mia, ma abbiamo subito capito di aver bisogno l’uno dell’altro.
Piccolo bambino mio, ho sbagliato in questi mesi a chiamarti “mio”, perché tu sei solo tuo e vorrei tanto averti insegnato che il futuro è nelle tue mani e che sei libero di inseguire i tuoi sogni, che
devi combattere per continuare a studiare fin quando lo vorrai, perché è proprio tra le pagine dei libri che sceglierai la strada giusta e troverai il tuo successo personale.
Non sarà sempre facile ma tu devi credere in te stesso e devi amare la tua terra. Devi continuare a cantare l’inno nazionale a occhi chiusi e con la mano sul petto come fai a scuola il lunedì mattina e il venerdì pomeriggio durante il rassemblement.
Grazie bambino per avermi fatto riscoprire il “fanciullino” che è in me, egli si cela dietro ogni uomo, l’avevo già studiato in Pascoli, ma non ci credevo, fin quando non ti ho conosciuto.
Bambino, ti prego, aiutami a mantenere vive tutte queste conquiste fatte anche ora che sono tornata al mio vecchio mondo. Perché, senza accorgercene, la nostra quotidianità che ci eravamo costruiti con tanta cura e che vivevamo insieme con entusiasmo tutti i giorni, è già passata.
Io non lo so se il mal d’Africa esiste davvero, ma so cosa significa svegliarsi dall’altra parte del mondo e avere un forte mal au coeur.
Marlene, operatrice volontaria di Servizio Civile Universale in Madagascar