Arrivato ho tolto la felpa, aperto le braccia e respirato quest’aria nuova. Non sapevo cosa avrei trovato; spoglio di aspettative, attendevo impaziente attraversando l’uscita dell’aeroporto come la vita mi avrebbe travolto per i successivi mesi. È buffo, non realizzi subito dove e con chi ti trovi. Non conosco nessuno, non parlo la loro lingua e le prime settimane sono costretto al silenzio. Costretto ad ascoltare, ad imitare i toni, gli accenti e le espressioni.
La prima cosa che conosco sono le lunghe attese nei ministeri, i fiumi di carte e firme per avere un visto e il sole che ti scotta arido sopra le nuvole di smog della capitale. Affacciato dal finestrino mi sembra di essere in un immenso formicaio, parte del continuo flusso di persone e macchine che riempiono le strade.
Risate, immondizia, musica, senzatetto, traffico e infiniti mercati all’aperto: così mi si presenta Antananarivo.
Come un esploratore osservo attentamente, cerco ingenuamente attraverso gli occhi di capire cosa ho intorno; tutt’ora non ci sono realmente riuscito.
Finalmente inizio: mi vengono assegnati i primi compiti, le prime classi da seguire e comincio a fare conoscenza con le ragazze e le bambine che saranno le mie coinquiline per tutta la durata del progetto. Sono timido; appena uscito dal liceo non sono abituato a parlare, spiegare e gesticolare davanti a decine e decine di coetanei occhi bruni che curiosi analizzano il bizzarro bianco venuto dalla terra dei bianchi.
Così passano i primi mesi e assieme al francese e al malgascio accresce dentro di me qualcosa di nuovo, una spinta di energia e forza, la scoperta dell’ignoto.
Mi sento nuovo, com’è nuovo tutto ciò che faccio e mi circonda.
Rinato, pieno, vivo.
Arriva Natale. Un Natale alla scoperta, più un pellegrinaggio che una vacanza, un viaggio, un’esplorazione dei territori più aridi dell’isola. Il sole è un occhio onnipresente, ti brucia, la temperatura non scende mai sotto i trenta gradi; l’asfalto riscalda l’aria già bollente e le lunghe tratte in autobus, quaranta persone accavallate in un furgone, man mano che si scende divengono sedute di sauna allucinante.
Tutto è nuovo, tutto incredibile: il mare, la strada, i monti e le persone. Cercano sempre di fregarci ma fa parte del gioco; ad ogni prezzo una discussione, ad ogni discussione uno scomodo compromesso per entrambe le parti. Venuti dal pianeta pallido siamo esseri reputati un po’ scemi, con il portafoglio pieno e le gambe pigre. Mi ripeto che fa parte del gioco e che forse vivendo una vita legata a durezze più fisiche, sia normale avere meno considerazione di chi quelle non le vive alla stessa intensità. Un esercizio zen, tu non cambierai la loro percezione sui vazaha, al massimo sarai l’eccezione che conferma la regola.
Ma sempre, sempre ne vale la pena: è conoscere. Riuscire criticamente a cogliere il buono e lasciare il marcio di ciò che si trova vuol dire aver ascoltato, aver aperto gli occhi e soprattutto aver lasciato indietro inutili pregiudizi. Non tutto ciò che troviamo ci piacerà, non sarà mai così: sta a noi e solo a noi cogliere i frutti, nessuno lo farà al posto nostro.
Questa è la scelta che si presenta prima di partire: portare il necessario e accettare il cambiamento, non in quanto autoannullamento ma solida umiltà, o trascinarsi fin qui un mare di bagagli pesanti di grigie e limitate certezze. Sarà diverso, gli altri saranno diversi a te e tu a loro, un estraneo tra estranei.
Cicloni, fiumi sconosciuti, strade affondate e autobus fantasma; abbronzati, stanchi e soddisfatti riusciamo a risalire l’isola e tornare a casa.
Sulla via di ritorno mi ritrovo a pensare alla comunità, dopo sole due settimane iniziavano a mancarmi e nonostante fossi estasiato di ciò che avevo vissuto ero felice di star tornando.
Dopo il Natale le cose cambiano: alcune bambine non ritorneranno, di altre non si sa o non si ha certezza. La scuola inizia il nuovo trimestre, nuovi programmi e mi ritrovo da solo nelle grandi classi del liceo. Non è facile all’inizio gestire trenta quindicenni ma facendo imparo, si sviluppa quell’occhio per capire qual è il problema quando un’attività non va: io, l’attività in sé, gli studenti o tutti e tre insieme.
Iniziamo un nuovo corso di italiano e la settimana è ora piena di cose da fare. Lentamente l’abitudine prende il sopravvento, piano piano copre tutto di quel pallido grigio tipico della routine. Il cielo si fa scuro, l’inverno più vicino. Per due mesi piove ininterrottamente e la luce del sole, prima scontata e fedele compagna, si fa timida e schiva.
Una parte di me continua a guardarsi incessantemente intorno e l’altra, ormai abituata al Madagascar, diviene un po’ più impaziente: un leggero nervosismo fiorisce dove prima era secco, cresce gradualmente l’insofferenza all’incomprensione. A momenti ricordi il magico del tuo viaggio, in altri ti chiedi se quello che stai facendo avrà un risultato tangibile. Probabilmente no, almeno non come lo pensiamo noi.
Qualche mese di corso di italiano non renderà madrelingua gli studenti, come le molte ore passate con i liceali non li renderà meno adolescenti. Ma quel tempo non è perduto, questa è solo la nostra concezione. Quei giorni, quei mesi, quel tempo sono stati condivisi, spesi e passati insieme ed entro un certo limite è questo quello che importa.
Hai conosciuto, e conoscendo ti sei lasciato conoscere. Hai imparato sugli altri come su di te, perché è attraverso la presa di coscienza delle differenze che possiamo vedere anche quelle che albergano in noi, nella nostra cultura e nella nostra storia.
Tra gli alti e i bassi i mesi passano e più la sabbia si accumula sul fondo della clessidra più si accumulano le cose da fare: la scuola è in fibrillazione per gli esami, gli addii a chi se andrà prima di te, documenti da inviare, attività e oratori da organizzare e il cuore che batte per gli addii che tu stesso dovrai dare quando partirai.
Le ore scorrono più rapide e il sole sembra fuggire nel cielo; ti volti e qualche centinaio di giorni sono trascorsi dal tuo arrivo. Sembra tutto vicino e lontano, sembri arrivato ieri e contemporaneamente aver passato una vita qui, in quella che praticamente è la tua casa.
Sono tranquillo e accetto che tutto ha un termine ma cerco comunque di inseguire il tempo, giorni che scappano come farfalle col vento.
Sei stato un anno nella loro vita e loro nella tua, e ora hai il dubbio se rivedrai più quegli occhi che sono stati la tua giornata per così tanti mesi.
Non sarà facile. Non sarà facile dimenticare i volti, le parole e le nuove abitudini. Non sarà facile dire addio. Un anno fa sono partito promettendo un ritorno e così farò qui.
Sono andato via per scoprire, per imparare, osservare e crescere; e così farò da qui.
Giorgio, operatore volontario di Servizio Civile Universale in Madagascar