Servizio Civile Universale

Elena, un anno in Rep. Dominicana

Written by Francesca

Sono in Repubblica Dominicana, en RD, come la chiamate voi. In strada passano più van scassati che automobili, ed è come essere in un film. Le portiere sono aperte, la gente guarda fuori. C’è tanto caos ma ognuno avanza lentamente. C’è musica ad ogni angolo e gli angoli non finiscono mai. Ci sono mille colori e tanti odori forti. Se alzo gli occhi intravedo qualche lavoratore in assoluta insicurezza lavorare sul tetto o trafficando in cima a qualche mezzo di trasporto che intanto, ovviamente, mi fa un cenno di saluto. Ci allontaniamo dalla città e il verde rigoglioso comincia ad esplodere da ogni lato, appaiono alcune bancarelle sul ciglio della strada e i bimbi camminano scalzi. Vedo alcuni cavalli soli, per strada, e i profili delle montagne si scaldano dell’oro del sole. Di fianco a me sfreccia un motorino impennando mentre un’altro supera lentamente un dosso. Sul motorino vanno in tre o quattro, senza casco, e i bimbi sono agganciati sotto le braccia dei genitori.
Scene di una quotidianità che per un anno è diventata anche la mia, grazie all’esperienza di Servizio Civile Universale che ho avuto la fortuna di svolgere in questo meraviglioso e controverso paese del Centro America. Io e i miei compagni ci siamo catapultati sul territorio dell’isola di Hispaniola, per metà terra di dominicani, per metà terra di haitiani. Una frontiera naturale e geopolitica divide due popolazioni molto ostili tra loro, ma figlie delle stesse radici africane, attrici di lotte violente e attualmente ospiti di criticità più o meno gravi e diseguaglianze sociali.
Io da dieci mesi vivo in una casa di un quartiere popolare di Barahona, una delle province più povere del paese, e per entrarci mi addentro in una strada sterrata. Al piano di sopra c’è una terrazza vista tropicale, di giorno soffia il vento e brucia il sole, la notte sento spari misti a musica latina. Noi non sappiamo esattamente che cosa succede un po’ più in là, ci dicono di non uscire da soli, la sera. Le volte in cui abbiamo assistito a scene tristi, per fortuna, si possono contare sulle dita di una mano, ma sappiamo che cosa succede nelle case di Barahona e nella “calle”, nelle strade del quartiere: i bambini lo raccontano a scuola e il loro vissuto ci scuote forte. La maggior parte delle giornate vissute in questo lato di mondo le ho trascorse proprio insieme a questi amati bimbi, che sono delle calamite per noi volontari: ci attraggono con quelle braccia spalancate, gli occhi vispi, “Elena” gridato gratuitamente ogni volta che ci si incontra. Sono forti nonostante la realtà in cui vivono e sono così belli, sensibili, puri. Sprigionano un’energia vitale assurda, donano tutto ciò che hanno. Con loro ho condiviso momenti speciali che il tempo, l’amore e la cura rendono indelebili e colmano il vuoto che la loro assenza lascerà, così come l’addio alla scuola, alla comunità, alla casa, alle suore, alle persone, al paese. Sì, perché è arrivata l’ora di salutare tutto questo e farà male.
Io, intanto, sono seduta su uno sgabello appoggiato in bilico nel passaggio tra i sedili di un pullman, ho un viso serio e un cuore caldo e nella scomodità delle emozioni piango di gioia. Apprezzo la vostra accoglienza. Siete stupendi quando ci caricate in pullman nonostante non ci siano più posti, quando vi fermate a chiedere “stai bene?”, quando per strada ci spingete il motor con il vostro se il nostro si ferma: automatismi di gentilezza. Adoro quando siete diretti, quando siete voi stessi fino al punto di far male, quando ci coinvolgete in tutto questo. Sì, perché i dominicani, quelli che ho conosciuto, sono così: tutto subito ti guardano male poi in un attimo diventi parte di qualcosa di più grande, sei l’amico di sempre, “familia”. Non ci sono differenze, se non quella economica dettata dal tuo colore della pelle. Non ti chiedono nulla di te, del tuo passato. È come se tu non avessi una vita al di là di quella, come se non fossi di un’altro posto. Ed è bello e pieno il momento vissuto insieme. È fatto di abbracci spontanei, risate, grida, balli e canzoni cantate a squarciagola e che dalle casse esploda una bachata o un dembow, qualsiasi musica qui ci fa vibrare l’anima ormai, ci unisce alla gente e ci racconta tante storie del posto e nostre. Il ritmo forte e pulsante, spesso insonne, ci stordisce: ci fa dimenticare i problemi, proprio come a loro. Ci fa immaginare il silenzio, quello che qui ci manca e che in Italia, forse, ci farà paura. Con voi ogni momento si trasforma in qualcosa di meravigliosamente pazzo, seppur nella sua estrema semplicità. Poi mi stupite per la vostra maniera grezza di fare le cose, ma che spesso vi aiuta a non complicarvi la vita, e per la leggerezza con cui la vivete. Anche per quanto riguarda i figli, mi avete detto, prima li fate e poi cercate il modo di crescerli. E state tranquilli, perché anche quando non si trova ci sarà sempre qualcun altro che si occuperà di crescerli al posto vostro. Il che è magnifico, seppur pericoloso. Anche la libertà che regna in questo posto, a volte estrema, mi colpisce: la vedo riflessa in vite randagie fatte di cicatrici e polvere, visi forti, gravidanze precoci e abbandoni. Però c’è una bellezza intrinseca a tutto questo ed è fatta di resilienza, fede e speranza. Ogni giorno ci si alza e si ringrazia Dio per un giorno in più di vita e ci si affida. E io mi rendo conto che è proprio questo assurdo incontro del crudo con l’amore che fa scattare un incantesimo che mi cambierà per sempre, mi auguro: mi spoglio, come voi, di ogni sovrastruttura, di ogni strato finto. Il cuore è più esposto, sento le emozioni più vive, mi sento più facilmente me stessa, tratto le cose per quelle che sono, e così le persone. Qui ci si dice le cose in faccia e si entra in contatto in modo diretto. Si dà importanza a ciò che veramente lo merita e si lotta per le piccole cose, con serenità. E ora, con un’altra consapevolezza, mi affaccio dalla mia torre, che mi sembrava costruita mattoncino dopo mattoncino, in maniera imprecisa ma corretta, cercando l’avanguardia, l’anticonformismo, la libertà, le rivoluzioni. Mi sembrava una torre funzionale, quel piedistallo da cui non dovresti cadere, ma che adesso mi sembra cristallo sottile, paglia, aria, un alone di parole e pensieri, un concetto, che forse non ha tutto questo potere e tutto questo valore. La ricchezza concreta, che ora che lo scrivo mi sembra un controsenso assurdo, ma è così, delle persone del posto, alimenta la mia voglia di continuare a tessere relazioni e costruire ponti in posti lontani. Vorrei che questo circolo non dovesse chiudersi adesso, ma sono contenta di sapere che questo sole che mi scalda l’anima da qui non scappa. E ti abbraccio, terra della musica, dei motorini e dei macheti, dei canti dei galli, dei colori sbiaditi e del legno, del mare, del verde immenso e arido. Ti ringrazio per avermi accolta e per essermi entrata nel profondo del cuore, sciogliendo alcuni nodi e socchiudendo alcune porte. In questo momento incrocio tanti sguardi e tante vite, lasciarli mi spezzerà quella parte di cuore che adesso sa amare ed è dolce. E che sorride al mondo, anche a quello che soffre un po’ di più.

Elena, operatrice volontaria di SCU in Rep. Dominicana

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