C’è una poesia di Fernando Pessoa che recita: Di tutto restano tre cose/la certezza che stiamo sempre iniziando/la certezza che c’è bisogno di continuare/la certezza che saremo interrotti prima di finire.
Sono parole, queste, che descrivono con sintesi e precisione i sentimenti che accompagnano la mia esperienza di operatore volontario qui in Brasile quando sono già trascorsi due mesi dal mio arrivo a Guaratinguetá, città immersa tra verdi colline nel nord dello stato di San Paolo a metà strada tra la capitale paulista e Rio de Janeiro.
La mattina qui, nella Casa do Puríssimo Coração de Maria, inizia con il rumore del rastrello che Jose passa sull’asfalto del cortile, che da lì a un’ora sarà preso d’assalto dai bambini, ed io lascio che siano lui ed il sole a svegliarmi; sono da poco passate le 7:00 e la giornata può iniziare. Mi alzo dal letto, apro la finestra e la porta della mia stanza e mi affaccio per cercare di capire quale combinazione climatica (pioggia e poi sole o sole e poi pioggia, nei casi peggiori solo pioggia) mi riserverà il cielo in quest’angolo di Sudamerica. Il caldo, ovviamente, è l’unica costante.
Comincio allora a prepararmi mentre la mia colonna sonora si arricchisce di suoni: al rastrello di Jose si aggiunge il rumoroso motore del furgoncino Volkswagen (meglio conosciuto come Kombi) che Claudio mette in moto per andare a prendere il latte ed il pane alla mensa comunale e così rifornire le due strutture salesiane presenti in città. Al piano di sotto Silvana ed Adriana danno inizio alle operazioni di pulizia aprendo tutte le porte, intanto dalla cucina arrivano i primi odori: Lourdes, la cuoca, è già all’opera.
In realtà me la prendo un po’ comoda perché, tanto, per la colazione dovrò aspettare le 9:00 e così tra un’azione e l’altra mi siedo sul materasso e rispondo al <buongiorno> di mia madre con un <buon appetito> visto il fuso che ci separa. Il momento in cui finisco di vestirmi e sistemare la stanza coincide con l’arrivo dei bambini, li sento gridare ed i loro piccoli ma pesanti passi si fanno sempre più vicini. Come un orologio a cucù le loro voci segnano le 8:00 e, così, mi precipito giù per le scale che – dalle stanze dove alloggiamo io, Giume e Neo – portano dritte al centro del cortile della struttura e mi unisco agli educatori della Casa nell’accogliere i bambini e le bambine che arrivano ad ondate. Tra un abbraccio ed un sorriso non mancano mai di essere affettuosi nei nostri confronti ed anche i più grandi, benché siano quasi sempre già stanchi ancor prima di entrare nella struttura, ti salutano dolcemente. Nel frattempo i bambini arrivati per primi hanno preso controllo del cortile ed insieme a qualche coetanea stanno tirando palloni in ogni direzione mentre le bambine corrono in gruppo verso un albero, luogo abituale delle loro conversazioni mattutine. Quanta energia di prima mattina! Sarà perché non ho ancora preso il caffè né messo sotto i denti qualcosa che ci metto un po’ a carburare (al contrario del vecchio Kombi).
Dopo qualche palleggio e qualche scambio a pingpong è arrivato il momento di iniziare ufficialmente la giornata, la voce degli educatori raggiunge ogni bambino ed ogni bambina; è l’ora del buongiorno e, quindi, della colazione (quasi sempre pane con il burro e latte al cioccolato). Anch’io ne approfitto e mentre “as crianças” mangiano, visto che è quasi l’ora, vado nella saletta dove il personale della Casa do Puríssimo fa’ colazione: pane, burro, biscotti secchi, latte e soprattutto caffè sono allineati sul tavolo. Un bel bicchiere di caffè colmo fino all’orlo, qualche biscotto e sono pronto a tornare in mezzo alla vita. Però mi attardo un po’ e quando esco dalla saletta raggiungo la coda del gruppo di bambini e bambine già divisi per classi ed in cammino verso le aule con gli educatori e le educatrici. Rallento ed alzo la testa verso il cielo azzurissimo, un ramo verde, sopra di me, teso verso il sole quasi a volerlo toccare. Respiro a pieni polmoni.
Le due ore di laboratori non sempre mi vedono impegnato attivamente a fianco dell’educatrice/ore ma non importa perché, parafrasando le parole pronunciate una volta da Emanuele Macaluso, “ciò che è possibile fare bisogna farlo, tanto o poco, bisogna farlo”. E se il mio fare in quel momento si limita alla sola partecipazione a me va bene. E poi è bello annoiarsi quando, facendolo, né approfitti per osservare le facce ora assonnate, ora curiose ed incuriosite, ora annoiate dei bambini e ti rivedi in loro nonostante l’età, nonostante le migliaia di chilometri; nonostante tutto. Tra una lezione e l’altra, comunque, i bambini, ne approfittano sempre per venire ad abbracciarti o per farti qualche domanda, ecco le più gettonate: come si pronuncia il mio nome in italiano?, com’è l’Italia?, quanti anni hanno i tuoi genitori e come si chiamano?, quante lingue sai parlare?- e la mia “preferita”- hai figli?.
Terminati i laboratori è l’ora, per loro, di pranzare. Tutti si mettono in fila, prendono piatto e forchetta e fanno una processione davanti al tavolo dove noi educatori serviamo loro le pietanze che la cucina ha preparato. Tra chi mangia e basta, chi parla e mangia e chi parla e basta, rimanendo così l’ultima/o con il piatto sotto il viso, alle 11:30 tutti i bambini sono pronti per lasciare la Casa e li accompagniamo lungo il corridoio (che dal cortile porta al cancello d’ingresso) mentre ti saltellano attorno.
Ora a loro li attende la scuola mentre a noi un’ora di pausa pranzo; alle 13:15 arriveranno le bambine ed i ragazzi del pomeriggio ed inizierà un altro capitolo, uguale al precedente ma diverso e nuovo perché – come scrive Pessoa – Dobbiamo fare dell’interruzione un cammino nuovo/della caduta un passo di danza/della paura una scala/di un sogno un ponte/e del bisogno un incontro.
Matteo, operatore volontario di Servizio Civile Universale in Brasile